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T e c n i c a   e   S i c u r e z z a


APNEA E RISCHIO EMBOLIA
(in collaborazione con il Prof. Massimo Malpieri)

Negli ultimi anni tra i pescatori di alto livello si è registrato un preoccupante incremento di incidenti dall'apparenza inspiegabile, caratterizzati da sintomatologia del tutto simile a quella di una MDD (malattia da decompressione) pur avendo colpito soggetti immersi in apnea.
   Durante il Mondiale 2000 di Tahiti il campione spagnolo March accusa una emiparesi destra, con perdita della parola e problemi di equilibrio; l'anno successivo tocca a Marco Bardi durante il Campionato Italiano: in entrambi i casi gli atleti stavano pescando da qualche ora a quote medio-alte con ritmo forsennato.
   Questi i due esempi più eclatanti, ma parlando in privato si scopre che alcuni degli atleti più in vista hanno già avuto a che fare con il problema.
   E' stata proprio l'aumentata frequenza di questi episodi che ha spinto alcuni valenti studiosi ad approfondire la questione, giungendo a conclusioni a dir poco rivoluzionarie: oggi possiamo affermare con certezza che anche l'apneista può essere soggetto alla PDD (patologia da decompressione) laddove le sue prestazioni vengano estremizzate oltre certi limiti fisiologici.
   La spiegazione medica è piuttosto complessa e di competenza di un relatore ben più qualificato del sottoscritto, per cui ho pensato di chiedere la collaborazione del Prof.Massimo Malpieri, specialista in Medicina Iperbarica e già autore di un articolo apparso sulla rivista Pescasub del maggio 2002 dal titolo "Embolia in apnea?". In quell'occasione il Professore ha illustrato con chiarezza e dovizia di particolari i meccanismi che originano questa patologia (ormai sempre più spesso conosciuta come Sindrome del Taravana) suffragandoli con anni di studi e riportando alcuni casi famosi; chi fosse interessato a conoscere meglio questi aspetti può andarsi a rileggere quelle pagine (su richiesta posso inviare una scansione dell'articolo).
   In questa sede quindi non entrerò nel dettaglio medico ma concentrerò la mia attenzione sul risvolto pratico del problema, sulla cosa che maggiormente ci interessa: come evitarlo.
   In poco più di un anno di vita questo sito ha conquistato una buona visibilità ed è diventato un ambiente di incontro per molti appassionati della pesca profonda per cui mi capita di essere accusato di propagandare in maniera irresponsabile un'attività ad alto rischio.
   E' innegabile che la pesca in apnea, e in special modo quella profonda, comporti una percentuale di rischio maggiore che non una partita a tennis od una corsa a piedi, ma è anche vero che la maggior parte dei potenziali pericoli possono essere efficacemente prevenuti promuovendo un'educazione alla sicurezza che stimoli il senso di responsabilità dell'apneista.
   Il conoscere, anche se solo a grandi linee, i meccanismi che stanno a monte degli incidenti a cui possiamo essere soggetti non deve ingenerare paura, ma soltanto una saggia prudenza che ci permetta di fare suppergiù le stesse cose ma con maggior cognizione di causa.
   Per questo, oltre alle tante pagine dedicate alla tecnica, alle attrezzature ed alle prede, ho sentito la necessità di arricchire questa sezione con una serie di scritti incentrati sul tema della sicurezza perché ogni qualvolta apprendo della morte di un apneista un pezzetto di me e della mia passione se ne va con lui, lasciando il posto alla rabbia ed alla malinconia.
   Pur essendo in prevalenza un solitario, talvolta mi capita di pescare con forti atleti che sembrano trascurare le più elementari norme di sicurezza, quelle stesse che io da anni in maniera empirica avevo adottato e che oggi trovano una razionale spiegazione scientifica. La voglia di far carniere, lo spirito di competizione, l'eccesso di sicurezza spesso sono in grado di far dimenticare i più ferri propositi per cui non siamo più disposti a riconoscere che qualcosa è al di là della nostra portata.
   Ma se la sincope anossica è solitamente preceduta da importanti campanelli d'allarme, la PDD è invece molto più subdola perche si manifesta in ritardo e senza particolari preavvisi e proprio per questo colpisce anche e soprattutto apneisti di indiscussa esperienza.
   Il principio che sta alla base del fenomeno è semplice e ben conosciuto da tutti coloro che si immergono con l'autorespiratore: durante l'immersione in profondità il sangue ed i tessuti assorbono una certa quantità di azoto che poi devono liberare una volta che risaliamo. La quantità di gas assorbito è direttamente proporzionale alla profondità ed al tempo di permanenza, per cui all'aumentare delle nostre prestazioni aumenta anche il rischio embolico.
   Quando vediamo all'opera atleti di valore è facile attribuire gran parte delle loro prestazioni all'allenamento: in effetti, a parte una necessaria predisposizione di base, una corretta preparazione atletica e mentale è in grado di produrre un notevole incremento delle profondità operative e dei tempi di apnea oltre ad una vistosa diminuzione delle pause di recupero, per cui un soggetto allenato a dovere è in grado di sostenere ritmi di pesca che al subacqueo della domenica appaiono impensabili.
   Ma quello che fino a ieri non veniva preso in considerazione è il fatto che ci sono organi e meccanismi fisiologici che non possono essere allenati perchè regolati da leggi fisico-chimiche costanti ed inalterabili. Uno di questi è proprio il processo che regola l'assorbimento ed il rilascio dell'azoto dai tessuti (incluso il sangue che è un tessuto liquido) che non riesce ad adattarsi alla maggior quantità di azoto accumulato in seguito all'aumentata permanenza sul fondo dovuta a prestazioni superiori alla norma.
   Il fenomeno si manifesta prevalentemente negli agonisti perché oggi le competizioni sono sempre più basate sul ritmo (maggior numero di tuffi = maggior numero di chances e quindi di prede) e chi vuole rimanere ad alti livelli deve giocoforza adeguarsi. Inoltre le due o tre giornate di gara consecutive creano accumuli residui che si vanno a sommare tra loro, visto che la desaturazione dei tessuti prosegue per parecchie ore dopo l'interruzione dell'immersione.
   Sono stati condotti esperimenti mediante un software simulatore d'immersione: ebbene, dopo meno di due ore (101 minuti) di intensa attività (tuffi di tre minuti con recupero di tre minuti e profondità di quaranta metri) lo strumento segnalava le necessità di una sosta di decompressione a 3 metri per circa 1 minuto!
   E pensare che il dato rilevato dallo strumento è inattendibile per difetto, perché il software proprietario è basato sui parametri classici dell'immersione in ARA e prevede una velocità di risalita compresa tra i 18 ed i 10 m/minuto, mentre l'apneista risale a velocità comprese tra i 40 ed i 70-80 m/minuto ! Poiché la risalita lenta è considerata un efficace metodo di decompressione, è facile immaginare come questa enorme differenza di velocità faccia lievitare sensibilmente il livello di rischio.
   Inoltre l'apneista è soggetto ad una serie di fattori (variazione della concentrazione dei gas alveolari, microbolle silenti, stress termico e metabolico, disidratazione…) che ostacolano il regolare deflusso dell'azoto dai tessuti e la sua liberazione attraverso gli alveoli polmonari, rendendo ancora più critica la situazione.
   Dopo aver preso atto che l'apneista, contrariamente a quanto fino a ieri sostenuto, può essere colpito da PDD, vediamo in che modo possiamo prevenire tale rischio.
   La prima considerazione è che la profondità da sola non è in grado di causare l'insorgenza del problema ma deve essere associata a ridotti recuperi e ad un protrarsi dell'attività per un certo tempo.
   Il primo e più ovvio consiglio è quello di prolungare la fase di recupero tra un tuffo ed il successivo, facendo in modo che la sosta in superficie abbia una durata almeno doppia rispetto al tempo d'immersione. Per quanto mi riguarda, da molti anni adotto intervalli di parecchi minuti che si sommano a frequenti spostamenti in gommone. Il tipo di pesca da me adottato prevede un numero limitato di tuffi ognuno dei quali è preceduto da una attenta pianificazione per cui queste pause, oltre che per prevenire l'insorgenza della PDD, risultano indispensabili per analizzare la situazione e studiare l'appostamento successivo.
   Vivere bene il mare significa essere in armonia con se stessi, senza l'assillo del carniere a tutti i costi, della sfida con gli altri o con se stesso. Nella maggior parte dei casi prendersi il dovuto tempo significa non solo pescare in sicurezza, ma anche orientarsi verso carnieri di qualità anzichè di quantità.
   Per gli agonisti il discorso è totalmente diverso, ed al momento non riesco ad intravedere una possibile soluzione: non riuscendo ad immaginare la concreta applicazione di una norma che limiti il numero di tuffi nell'unità di tempo, tutto dovrebbe basarsi sulla capacità del singolo atleta di autolimitarsi…facile intuire che se anche uno solo decidesse di infischiarsene del rischio (cosa che al momento quasi tutti continuano a fare) gli altri dovrebbero scegliere se adeguarsi o partire battuti.
   Su questo sembra esserci una sorta di omertà dell'intero settore, quasi come se si volesse esorcizzare lo spauracchio non tenendolo in considerazione. Ancora oggi si continua ad enfatizzare il ritmo indiavolato sostenuto da questo o quell'altro durante la gara contribuendo ad un'errata educazione delle nuove leve. Un esempio? Lo scorso settembre Pescasub pubblica un articolo dal titolo "E' tutta questione di ritmo" in cui si parla della capacità di un noto garista di effettuare tuffi continui con recuperi minimi… pur non avendo niente di personale contro quell'atleta (che non conosco direttamente ma che stimo) credo che il danno prodotto da quelle pagine sia di gran lunga superiore al beneficio apportato dall'articolo del Prof. Malpieri apparso sulla stessa rivista solo quattro mesi prima.
   Un altro argomento piuttosto scottante è costituito dalla crescente diffusione della discesa in assetto variabile. L'uso della zavorra mobile viene di solito presentato come un modo per ridurre i rischi legati alla sincope anossica ed in parte questo corrisponde a verità: l'assetto positivo in fase di risalita riduce sensibilmente lo sforzo della pinneggiata ed il conseguente consumo di ossigeno proprio nella fase più critica dell'immersione cosicchè, a parità di quota, il grado di sicurezza risulta superiore rispetto ad un'immersione in assetto costante. Purtroppo la zavorra mobile viene troppo spesso utilizzata per raggiungere quote altrimenti al di fuori della nostra portata e questo, a mio avviso, costituisce una grave imprudenza se non siamo supportati di un adeguato apparato di assistenza.
   Ma il rischio tanto grave quanto poco considerato di questa pratica è di carattere embolico. Per capire meglio facciamo un esempio molto vicino alla realtà. Un tuffo in assetto costante a 35 metri della durata di due minuti è mediamente così suddiviso: 50 secondi per la discesa, 30-40 secondi di sosta sul fondo, 30-40 secondi per la risalita.
   Lo stesso tuffo eseguito con zavorra mobile di 10 Kg è invece così composto: 20-30 secondi per la discesa, 60-80 secondi di sosta sul fondo, 20-30 secondi per la risalita.
   Ecco che la nostra permanenza in profondità raddoppia, mentre la durata totale dell'apnea rimane invariata. Così come il recupero, che talvolta si riduce ulteriormente perché oltre al debito d'ossigeno non c'è più necessità di smaltire l'acido lattico che si è prodotto in quantità limitata a seguito del ridotto sforzo muscolare (assente in discesa e minimo in risalita).
   Il risultato è che, effettuando tuffi ripetuti in assetto variabile, in un'ora avremo totalizzato una permanenza sul fondo all'incirca doppia rispetto alla tecnica di discesa tradizionale, causando un accumulo di azoto nei tessuti di gran lunga superiore. Ad aggravare la situazione concorre la velocità di risalita che, in questo caso, si eleva fin oltre i 100 m/minuto rendendo pressocchè nullo l'effetto decomprimente della risalita stessa. E' facile intuire i rischi reali che corriamo e come questa pratica sia assolutamente da sconsigliare come forma di pesca abituale anche se alcuni noti agonisti continuano a pubblicizzarla senza fare il benchè minimo accenno a questo genere di rischio. Personalmente adotto la zavorra mobile nei rari casi in cui debba lavorare una preda ferita a quote rilevanti o in presenza di forte corrente, ma si tratta comunque di uno o due tuffi nell'arco dell'intera battuta ed a profondità che solitamente raggiungo anche in assetto costante.
   Tornando a noi che peschiamo per diletto e non per competizione, possiamo identificare alcune importanti norme di sicurezza in grado di eliminare o comunque ridurre drasticamente il rischio di incorrere in una PDD:

  • Quando peschiamo a quote elevate il recupero tra un tuffo ed il successivo deve essere adeguato, indicativamente vicino o superiore al doppio della durata dell'apnea.

  • Evitiamo di eseguire un numero troppo elevato di tuffi impegnativi. Meglio concederci pause sul gommone più frequenti, approfittandone per recuperare lucidità e magari introdurre qualche alimento o bevanda.

  • Bere spesso negli intervalli della battuta in modo da reintegrare i liquidi persi a seguito di un fisiologico aumento della diuresi. L'aumentata densità del sangue è un fattore che favorisce l'insorgere di patologie emboliche. L'ideale sarebbe bere acqua pura o addizionata con integratori salini, evitando bevande eccitanti tipo tè o caffe, bibite gassate o complessi acidogeni come latte o succo di frutta, che vanno ad alterare il già precario equilibrio del PH gastrico.

  • Evitare quanto più possibile le discese in zavorra mobile, limitandole ai pochi casi di emergenza (incaglio ancora, pescione da recuperare…) ed evitando di fare serie di tuffi consecutivi.

   Nella malauguata ipotesi che, nonostante tutti i nostri buoni propositi, dovessimo incorrere in un incidente riconducibile ad una PDD è importante prendere coscienza del problema quanto prima possibile per adottare le dovute contromisure. Molti anni fa sono stato diretto testimone di un episodio di questo tipo e, non avendo la benchè minima idea di cosa stesse succedendo, mi sono spaventato a morte vedendo il mio compagno semiparalizzato ed incapace di parlare e non sapevo come comportarmi. Poi, mentre rientravo, la paresi ha iniziato a regredire e nel giro di poche ore ogni segno era scomparso, ma non dentro di me. Ancora oggi non riesco a togliermi dalla mente quei minuti di panico e mi domando perché si debba rischiare tanto per uno sport che dovrebbe essere divertimento puro. Se avete pescato a quote medio-alte per parecchio tempo e avvertite strani sintomi, come intorpidimento degli arti, dolore articolare, deficit dell'equilibrio, difficoltà di parola o forme più vistose di paresi facciale potreste essere vittima di una patologia da decompressione. Nel dubbio è sempre preferibile adottare la corretta profilassi che consiste nella respirazione in ossigeno puro, nella reidratazione tramite assunzione di liquidi e nel rapido raggiungimento di un centro diagnostico dove, se gli accertamenti dovessero dare esito positivo, verranno avviate le procedure per un trattamento in camera iperbarica che solitamente si dimostra risolutivo. Da qui si intuisce l'importanza di avere a bordo una bombola di O2 ed un compagno-assistente esperto ed in grado di mantenere la necessaria freddezza nelle situazioni di emergenza.